Non scrivere, tirare avanti, fumare sigarette, controllare i pensieri, nessuna pagina abborracciata: mi sono dedicato per qualche settimana a questa spedizione senza oggetto, mi sono appaltato al silenzio. Non ho ottenuto nulla e non potrei continuare per molto, così vi rinuncio. Ho fisiologicamente bisogno della mia quota di errori per unità di tempo. Il villeggiante che non invidio, in questa stagione, ha bisogno della sua razione di sole e di riposo, ha bisogno di grattarsi: quella nobilissima collezione di pigrizie che è la ragion d’essere dell’espressione "in panciolle”, polirematica che descrive la condizione più ovviamente desiderata. Dopo un pranzo leggero, tra le due e le quattro, nelle ore peggiori del pomeriggio, ovunque si trovi un individuo in vacanza ci sarà qualcuno che suda e qualcun altro che spia ammirato il suo sudore. Si canta, si socializza e si giudicano cocomeri, le entità necessarie per il sollievo dal caldo, i soprammobili dell’estate. Il detenuto si gode le due ore d’aria e poi torna a progettare il ristoro, un’attività ben più faticosa del facchinaggio e più complicata di una congiura. Non mi capita spesso di conoscere persone soddisfatte della gestione del tempo libero, e quasi tutti mi sembrano ossessionati dai concetti di pianificazione, ottimizzazione e razionalizzazione del divertimento; incapaci, persino nell’amministrazione dello stomaco, di essere dei dilettanti.
Io sono un altro genere di detenuto e le mie due ore d’aria trascorrono nello stato pietoso di chi si flagella da solo. Tra le due e le quattro del pomeriggio, tutti i giorni, il paziente me si occupa di commettere errori. Indosso le scarpe e prendo le chiavi dell’auto, gli strumenti dell’errore, e mi avventuro per le strade deserte, le mie acque termali, concentrato nella funzione di concepire ogni genere di sbaglio. Più tardi formulo i pensieri, enuncio le teorie e inizio a metterle su carta. So di non essere incompreso, perché trovo sempre compagnia nei miei fallimenti erratici.
Non fa pena questa mia sorte? Pretesa ridicola, la compassione di chi si evita. Tuttavia sono in grado di suscitare almeno un sentimento presso quelle coscienze ostili che si nutrono di fanatismo feriale: solo i dilettanti provocano la costernazione dei professionisti quando le due categorie condividono il mestiere, giacché i secondi non possono imporre ai primi la propria visione del mondo, ma sono costretti a vederseli a fianco come concorrenti, contendenti (essendo incapace, la mente di un professionista, di concepire se stessa al di fuori di una paranoica scala).
P.S.: spero che sia chiaro che qui si parla di “professionista” in senso degradato. È all’idea della professionalità che sono allergico, non a chi la incarna.
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