Riporto da Unità di Crisi i trenta monologhi per un romanzo impuro.
[Questo è il secondo, in versione ridotta, come gli altri]
Dunque, ci sono due Enea in questa storia. Sono stata, con qualche millennio in mezzo, prima con Enea il lesto, a giudicare da come se la svignò, e poi con Enea il morto, visto il gesto sublime con cui decise di corrispondere al proprio destino: era scritto, lo si poteva cancellare, nessuno lo fece. E si ammazzò. Ogni tanto sono stata con Enea lo zingaro, che era un po' lesto e un po' morto, oltre che naturalmente votato a fare il pellegrino per tutti i nuovi mondi a cui si potesse dare troiana civiltà. I popoli lo attendevano per dargli le ghirlande, le donne per dargli tutto il resto: resisteva a tutti. Era allergico all'effimero e all'eterno, fiori e matrimoni. Amore mio, dategli le vacche: dalle tette munge la giusta ricompensa.
Achille, la lunga mano di Atena, la sua appendice armata. Riecco Enea, travolto da tutti i bambini e da tutte le donne di Troia, che tornava per parlare di sconfitta. Ho ricordi vaghi qua e là, in mezzo a vuoti in cui ci sono immagini di morte e di Troiani, e ritornelli della consueta speranza. Si tratta di quel tono da scemo che si prende quando si deduce, tutti assieme, l'impossibile: non potevamo vincere ma ci credevamo immortali. Non c'era più bisogno di negare apertamente ciò a cui nessuno credeva. Il fatto che fossimo noi stessi a dirlo, assolutamente indegni di fiducia, dava il senso complessivo del clima da ultima ora che si andava creando attorno all'esistenza. Ci bastava guardarci negli occhi come i vitelli quando capiscono che si stanno avvicinando grandi festini. Si muore nella quantità.
Al nono anno ci fu un momento di grande perspicacia collettiva. Si era arrivati a pensare di potere prendere i Greci per vecchiaia; poco alla volta, di farli avvizzire. Ché, se in tanto tempo non erano arrivati a Troia, piano piano si sarebbero dimenticati di noi. Ma vincere ci era vietato dagli dèi, finché prestavamo loro fede. Una volta traditi dagli dèi, messi da parte dalla confraternita celeste, ci fu vietato da Ulisse, il gentiluomo che, per indovinare dove colpire, era rimasto dieci anni ad ammazzare qualcuno di tanto in tanto e nulla più; per cercare di capire ciò che ufficialmente si poteva capire del nemico, in realtà ciò che egli avrebbe temuto da se stesso. Ulisse, che aveva tutte le paure, aveva anche ragione. Ma c'è un altro Ulisse che la storia rimpiange, che si distingueva dal primo per lo sciame di mogli e concubine che facevano concorrenza a Penelope e alle Pizie: un drappello di streghe, maghe e puttane dei porti. Ulisse non cede alla lusinga, non cade in tentazione: le calcola, le piega al suo comodo. La tentazione gli serve come il capro nell'isola di Polifemo, a levarsi dai guai e salvare la pelle; e gli dèi lo assistono, vigliacco e fortunato. Quello che è passato alla storia come un eroe di altissimo ingegno era in realtà un temperamento volgare, un campione di destrezza e astuzia tra ingenui e maldestri. Un eroe così come è giusto che sia. Ulisse non ama, si sistema. Non tradisce mai completamente e, quando si dà, si dà in prestito; tutto, nella sua testa, è asta e tornaconto. Se anche piange, sta versando lacrime su un cattivo investimento; se lo vedi a letto con una donna, è già in trattative. Eppure, si ama quest'uomo. Dico eppure ma dovrei dire infatti, perché tra tutte le deformità si ama quella deformità che più ci somiglia e che sembra aver successo.
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