Ero un brillante predestinato che si era dato, da giovane, ai piaceri
dell’eterno. Alla lettura
dei primi classici, i miei cari vecchi, mi
ero votato all’impresa di scavalcare i secoli per arrivare al tavolo
del giudizio universale, a contrattare con il padreterno un adeguato
compenso per i fogli che avrei riempito. Non credevo in lui, ma
pretendevo che mi credesse: con il cristiano ardore dei miei dodici
anni, iniziavo quell’attività di mentitore che mi avrebbe condotto, da
un’umiliazione all’altra, ad una vecchiaia miserabile. Strappata la
promessa all’onnipotente, ero pronto a guerreggiare per qualche
decennio, per poi lasciare le mie reliquie come oggetto di culto a
quella posterità che, nel sonno, iniziava ad asfissiarmi. Crociato per
adozione, ero tuttavia il principe dei vigliacchi e, dopo avere
corrotto il patrono degli spiriti beati, mi dedicai al cupo signore
delle anime dannate. Diligentemente mi fabbricai uno scrittoio,
assolutamente inutile per la mia carriera ma agghindato come un
tabernacolo, per distrarmi dalle faccende mondane e richiamare alla
mente l’alto senso della mia missione, per mantenere il contatto con le
sfere celesti e per qualche altra ragione perfettamente assurda che
preferisco omettere. Data la funzione primaria che assegnavo
all’apparenza, decisi di confezionare a tavolino un sofisticato
cerimoniale per accostarmi ai fogli, e lo rispettavo come un invasato.
Disturbato dieci volte, dieci volte ricominciavo da capo: consumati i
preliminari, a volte ero così stanco da non riuscire a sollevare la
penna, e preferivo dormire. Tuttavia, ero convinto che una forma
qualunque di disciplina fosse la giusta gabella per le idee: mi piegavo
speranzoso allo stupido rituale, perché era un passaggio obbligato
verso la casta intellettuale, che in questo modo dava segno di volermi
accogliere.
Sul piano pratico, con la penna in mano mi trasformavo in un nuovo tipo
di articolo umano,
la variante querula e vendicativa dell’insulso fantolino che
collezionava insuccessi: liberai l’eroe che dormiva in me, lo lasciai
volare, gli feci correggere il mondo in due o tre punti sostanziali, ed
infine lo premiai con i primi racconti, le sue gratificanti pasticche
di indennità. Imploravo la fantasia di non abbandonarmi, e non mi
abbandonava mai. Più che nella creazione, mi cimentavo nell’istituzione
del regime mondiale dell’infante, per dare ai miei coetanei più
meritevoli pari diritti rispetto agli adulti. Iniziai a scrivere
lunghissime lettere ai miei personaggi, per ringraziarli delle loro
prodezze e consigliarne di nuove, ma cominciai ad avere un cattivo
rapporto con i miei doveri quotidiani, fino a diventarvi allergico:
preferivo i miei personaggi, e trascorrevo con loro molto più tempo di
quanto qualunque mio contemporaneo dedicasse allo svago. Fui un bambino
alienato e felice, finché non mi toccò grattarmi la testa nella
speranza di raschiarne nuove idee. Disimpegnato nei confronti di tutto,
artista per conto mio, utilizzavo le ore di scuola per progettare la
mia futura biografia, ed il resto del tempo per realizzarla. Mentre gli
altri bambini trionfavano nella società dei balocchi, io inventavo un
nuovo gioco: disegnare le idee.
Naturalmente, la mia vita di tribù era molto limitata: una robusta
patina di spocchia l’avrebbe definitivamente annichilita. Scoprii che i
film erano una buona fonte di ispirazione: non disdegnavo le storie di
massacri, o quelle in cui si versava una cospicua razione di sangue.
Era il segno di una naturale disposizione alla morte che non aveva
ancora trovato modo di esprimersi. Non mi era chiara la cosiddetta
condizione umana e le mode religiose, stupidamente assimilate, mi
avevano persuaso che la morte fosse poco più che un trasloco. Dopo
molte proiezioni, calci in culo e lunghe ore di tirocinio presso
quell’industria di morti che era la saga familiare di mio nonno, presi
il diploma di vivo
e capii di avere il dovere di trarre della poesia dalla mia deperibile
carcassa di uomo: ne feci un canto, ne venne uno strazio. Come
scrittore fu una disfatta, e vidi chiaramente che iniziavano a sbiadire
le venerande icone del duemilacinquecento che mi ritraevano curvo sui
fogli, intento a riformare la letteratura. Mi restavano forse una
settantina d’anni, da vivere a stretto contatto con la morte e con
l’idea del mio probabile fallimento. Un mondo intero mi sarebbe
allegramente sopravvissuto. Capii finalmente qualcosa del macabro
paradosso di mio padre: chi non si tramanda con i figli è morto e chi
ne dissemina qualcuno esporta la dolce radice dell’eterno fuori dal
covo di menzogne della propria famiglia, verso una famiglia esterna e
futura, che quanto a millanteria è identica prima, ma con un pezzetto
di immortalità in più. Stando così le cose, la penna era come un
preservativo. A parte la precoce polemica sulle istituzioni, dieci anni
più tardi capii le ragioni di mio padre, o almeno la loro struttura
teoretica: datemi l’eterno e tenetevi l’angoscia. Del resto, per fare
un esempio, come avrei potuto credere all’amore disinteressato di mio
nonno, che investiva più energie nelle premure per il nipote piuttosto
che per se stesso? Egli, effettivamente, si prendeva cura di se stesso!
Così mi parve, con tutte le precauzioni che il mestiere di bambino mi
aveva insegnato. Con un coraggio d’occasione, trasfiguravo il mondo per
renderlo compatibile con l’esigenza di non credere a nulla;
interpretavo i rapporti umani, li giudicavo e li condannavo come
ignobili pantomime: preparavo l’universo ad essere rifatto con il
minimo sforzo, e mi facevo carico di questa leggera incombenza. Ero
Nerone, con il talento di un architetto e senza la sua inclinazione
alla farsa; ero un Carlo Marx che apparecchiava rivoluzioni, ma avevo
sostituito l’orfanotrofio al proletariato; ero un Gesù Cristo che,
ricoprendo la carica di scrittore, non amava salire sulla propria croce
e vi spediva apocrifi rappresentanti: ogni mio personaggio seguiva
quella parabola che, dopo i trionfi iniziali, lo portava a morire un
paio di volte, gemendo e sanguinando al posto mio.
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