[tra una pila di appunti sulla Dichiarazione dei diritti (e dei doveri) dei narratori di Wu Ming, prima di un lungo intervento sul dibattito che si può leggere su Lipperatura e su Vibrisse]
I nostri autori ci lasciano qui. Soli. Chi comanda i pensieri istruisce la mano
a dire ciò che non si può dire, a patire sui fogli l’ossessione dei disgraziati:
gli scrittori, la specie simbolica, gli affabulatori a cui non bastò il
padrenostro come criterio di verità. E si ritrovarono soli. Colmo
dell’ingiustizia, non si faranno mai compagnia e, abbandonato il rosario per la
macchina da scrivere, non potranno che contare sulla propria disperazione,
ognuno sulla propria, e scambiare opinioni da eterni e inconsolabili
delusi. Torneranno alla loro ossessione, si spingeranno lontano, ma mai
abbastanza, brilleranno per una parola e precipiteranno nel buio: così pare che
debba accadere. Sia chiaro, nessun malinteso: non vi è destino, non vi è una storia a cui sia
impossibile sottrarsi, un precipizio inevitabile: sono seducenti balle per aspriranti maledetti.
Le storie si scrivono o si vivono, secondo alcune norme
che passano dalla vita alla narrazione e viceversa, ma io non saprei distinguere
troppo chiaramente se si tratti di vita o di racconto. Non ne farò un dramma, mi
basta l’avventura, e riguardo la sua classe ontologica basta attendere la
morte dei filosofi che investono un’esistenza su questioni immortali e
lacrimevoli: visti quanti ne ha fatti piangere l’essere, e piangere
invano. La religione durerà ancora, il clero non spicca certo per onestà ma per
spirito di conservazione. Dietro questo disfattismo mimato si nasconde il più
ingenuo buon umore, giacché la massima aspirazione di pastori e reverendi è di
ricalcare le orme di Gesù Cristo senza mai concedersi alla croce. Come epigoni
sono dei dilettanti, e questa è l’immagine della loro incazzosa divinità: un
dilettante della giustizia, un aborto morale senza responsabili bene
individuati. Un vaffanculo che non si incarna mai.
I nostri cari autori, i nostri amati scrittori, hanno abolito
le virtù astratte per lasciarci a mani vuote: l’auspicata perfezione è
degenerata nel vizio, avrebbe sostenuto un Torquemada in vena di delucidazioni.
Si dirà che c’è qualche eccezione: certo, è vero, c’è persino chi, come Boezio,
cerca ancora la prova dell’esistenza di dio, e, fatto inaudito, la trova:
spesso, nelle piccole cose; ancora più spesso nelle cose inesistenti.
Ma (avversativo di un'impostura) la solitudine dello scrittore è, ancora una volta, un fatto sociale: altrimenti è il vanto di un'ipocrisia.
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