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January 30, 2006 in Quasi un diario | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
Telegrafico.
Dopo 4 tentativi a vuoto (pochi, considerato il periodo), e altrettanti avvisi "your feedback is vital", non avendo tempo per le questioni vitali secondo typepad, mi milito a segnalare:
Memoria: 27 gennaio: ricordare: ricordare: ricordare: ric...
(chi abbia voglia e tempo lo faccia "girare")
e una prima replica (autosufficiente) riguardo alcune questioni discusse su Vibrisse, Lipperatura e Origine, ospitata su Lipperatura.
January 27, 2006 in Tempi moderni | Permalink | Comments (34) | TrackBack (0)
Mi scuso per:
silenzi prolungati;
mancate risposte nei commenti;
mancate risposte in mail;
ritardi di vario genere, tra cui una lunga replica alle questioni sollevate su Vibrisse e Lipperatura a cui avevo accennato. Conto di rimettermi in sesto per domani; banali contrattempi di salute, raffreddori di stagione, variazioni su tema, umane bagattelle.
P.S.: Emilio, esistono i trackback: usali, sono utili.
January 25, 2006 in Quasi un diario | Permalink | Comments (12) | TrackBack (0)
Sarà riesumata la salma della verità. Non servirà a nulla. Ecco finalmente lo storico annuncio, una di quelle occasioni per cui si sciupa la parola epocale, il senso del nulla visto con l’occhio lungo della storia, ossia il patto tra i morti di ieri e i morti di domani. Il velo è stracciato, il dolore è finito, il sangue è bevuto: si muore, ma senza l’aria da melodramma. Dunque, mentre scrivo aumenta il numero dei morti: la famiglia li piange, la bara li coccola e la morte fa semplicemente la morte, l’attività spregevole e doverosa di allungare la mannaia. Ci fa così orrore che per tutta la storia della letteratura non facciamo altro che rappresentarla in posa antropomorfa, una donna vestita di nero e abbigliata come un albero di natale: come piace a lei, che ha cominciato a recidere teste dai primi istanti del mondo, quando il paradiso terrestre si dimostrava un fallimento ed i precipitati iniziavano ad aspirare alla medaglia d’oro dell’eternità. Ci accompagna così, nobili decaduti del cielo, nelle zone in cui il culo brucia o in quelle in cui si raffredda e riposa. Secondo la ridicola versione di chi ritiene, per religiosa aberrazione, che morire sia come traslocare verso l’Alto o verso il Basso e nell’imminenza del trasferimento giunge le mani o si inginocchia alla sua Mecca.
Per chi dubita dell’aspetto scientifico della religione, della sua capacità di far previsioni sulle sorti dell’umana carcassa, resta la convinzione che l’angoscia sia l’unico senso, per nulla profondo, e che ciò che seguirà alla morte di uno sarà soltanto la morte di un altro; con la lacrimevole speranza di essere almeno surrogabili: e di avere l’angoscia ad un prezzo competitivo. Leggi qui il mio sorriso disperato, per nulla diverso da quello di un pagliaccio che reciti sotto tortura. Uomo e menzogna è un antico amore che trova sempre nuove conferme, i miei amici lo sanno.
Cosa ci aspettiamo. Noi che scriviamo; gli inconsolabili, i discoli dell’esistenza che vorrebbero sempre di più e non fanno altro che distribuire a piene mani l’umore nero in cui impegnano l’opera di una vita. E' solo una visione barocca di una stupidaggine contemporanea, gli stessi disperati sono lestissimi a vendere culo e coerenza per una buona claque, e a disperare in tempi futuri.
Tuttavia. Non c’è niente che non sia qui, ed anche qui non c’è di che dichiararsi soddisfatti. Un uomo può cullarsi nel dopo tanto quanto un elefante può promettere di volare tenendosi appeso alle proprie orecchie. Nulla lo vieta. Il sangue è bevuto: seguiranno altri morti, altre cronache addolorate, altre lacrime nel gocciolatoio; i solenni fasti di una marcia funebre, un mucchio di parole su un mucchio di ossa. Onore all’antica astuzia: dimenticare per vivere. Ecco il velo, era uno straccio.
January 19, 2006 in Per qualcuno | Permalink | Comments (4) | TrackBack (0)
di Francesco
Mi guardo bene dal credere di poter risolvere o spiegare il rapporto
psicologico e culturale che legherebbe il concetto di denaro alla
sinistra con un post, ma è da alcuni giorni che ci si interroga su di esso
e sulla presunta diversità che ne discenderebbe per la sinistra.
Al di là della strumentalità nel porre problemi metapolitici in luogo di quelli
politici che dovrebbero interessare milioni di elettori, avendo io
molti, ma molti meno lettori di quei milioni, posso anche perdere
un po' di tempo per tentare di chiarirmelo e anche contribuire
a sfatare il mito della semplificazione moralistica con la quale si cerca
di definire quel rapporto.
Non dispongo di sondaggi o di ricerche in merito, perché non ne conosco, né di
testi, perché non ve ne sono.
La traccia di questo post è puramente speculativa, frutto di ragionamenti e di
esperienze concrete. Però, fino ad oggi le spiegazioni fornite da vari commentatori della questione,
forse per una recondita responsabilità del linguaggio televisivo e della
stampa (attuale) mi hanno soddisfatto poco.
Non credo, intanto, che la questione si possa porre (tanto meno esaurire)
considerando la pura e semplice dimestichezza con il denaro, come proveniente
da un'attività economica piuttosto che da un'altra (Scalfari a Ballarò). In
quella dimestichezza sembra prendere corpo un giudizio sulla
spregiudicatezza che ne seguirebbe nel considerarlo un fine e non un mezzo; il
denaro in realtà da tempo tende a esistere sempre
meno e a incombere come una qualità spirituale, quindi per sua
"natura": sacra (con i sacerdoti che ne officiano i riti e ne
comprendono le recondite quintessenze) e pervasiva (perché, almeno in teoria,
disponibile per tutti e indispensabile).
Neppure si può partire dal presupposto di un atteggiamento
benevolo (o addirittura "laico") inculcato a certe categorie
sociali, che troverebbe radicamento nell'etica capitalistica tout
court con tanto di basi puritane e protestanti (seppur importanti),
di cui la destra in Italia beneficerebbe, per proprietà transitiva. L'etica
protestante serve a spiegare molto, ma non tutto, del vigore economico di
popoli diversi dal nostro, e non può far velo alle esperienze con il denaro delle
cattolicissime prime banche italiane (dai Medici ai Bardi, fino ai
Peruzzi) che tanta parte ebbero nel fondare il capitalismo
mercantile nel Basso Medioevo; e tanto meno, per fare un
esempio, può farci dimenticare la prima rappresentazione legale
del denaro tutta "made in italy", dell'invenzione della cambiale.
In realtà se c'è una caratteristica che ho visto emergere in tutti questi
anni nei capitalisti italiani spicca la loro fisonomia di grandi mercanti,
piuttosto che di grandi imprenditori.
Tra l'altro, le documentate contestazioni nell'attribuire merito a
quell'etica, nel dare spiegazione del vigore economico di un popolo, di
un'etnia o di un gruppo sociale sono state recentemente proposte da Ami Chua nel riferire del dominio plurisecolare
della minoranza cinese (lontana anni luce da puritanesimi e calvinismi) sulle
economie di Malesia, Filippine, Indonesia, Vietnam, Birmania e
Singapore, accostato alla tradizionale e millenaria
"apatia" economica dei cinesi rimasti in patria.
January 18, 2006 in Tempi moderni | Permalink | Comments (5) | TrackBack (0)
Questa vita è di nuovo decente, mentre s’ingozza il popolo di arditi concetti, e io sono il popolo, sazio da vomitare, disgustato al punto giusto, consapevole delle mie valigie da ridere: le preparo ogni mattina per disfarle ogni sera. L’ossessione merita rispetto, la ripetizione è la sua prosaica bagascia, ma si tratta di astuzie intellettuali per mediocri individui compromessi con la signora morte, retorica versione di quella larva in costume da castigamatti, armata di batacchio e di falce, che spicca le teste senza badare ai volti (tremenda matrona!): una retorica solo più patetica e ingegnosa dell’altra. La scelta più saggia è che io vada via: fuggire. E’ anche l’unica possibilità, una semplice questione di sopravvivenza. Prima di tutto, vogliamo vedere l’uomo piangere, vogliamo vedere la sua angoscia, vogliamo lastricare la sua pena con i bei cippi della letteratura, una lacrima e un romanzo, una poesia e un tumore al fegato: l’angoscia è la materia prima con cui voci dissonanti si esercitano sui fogli, e poi sui figli. Uomini immersi in fiumi di inchiostro non si accorgono di galleggiare in quella fogna insanguinata che chiamano affettuosamente mondo. E mondo sia, ma a ben altre condizioni. Dunque, ho pianto. L’angoscia venne dopo i primi sacramenti, perché al padreterno non si chiede più di manifestarsi ma di vegliare sui vivi: e questa forma di vigilanza ottusa porta le stimmate di un’imbecillità che, in cielo come in terra, mi risulta intollerabile. Dunque, ho letto. Probabilmente il mio primo eroe fu un farabutto, Ulisse il ramingo: ne seguirono altri, le peggiori canaglie che la biblioteca di bambino potesse ospitare. Avrei voluto l’arte di Circe, per tramutare i miei compagni in porci, finché non mi accorsi che tutta l’innocenza della giovane età non impediva loro di sguazzare dentro un letamaio: non avevano bisogno di alcun genere di miracolo per diventare ciò che erano già. Dunque, ho scritto. Molto e male, perché la mia mente è un luogo sinistro, il mio cuore non è affatto ferito, e soltanto il culo non è perfettamente sano.
January 17, 2006 in Quasi un diario | Permalink | TrackBack (0)
di Rossana di Neurogreen
Sono più di due millenni che il potere maschile della Chiesa si affanna a ordinare i rapporti intersessuali secondo interpretazioni punitive, negando la possibilità del carattere liberatorio e improduttivo del corpo femminile.
Accade che nel momento in cui vi è il tentativo di costruire un nuovo dis-ordine globale, la Chiesa si senta in obbligo di ridiscutere la laicità dello Stato (con l'appoggio della parte più integralista e conservatrice dello stesso) per ancorare moralmente il proprio popolo contro il caos che fa confondere il bene dal male. La fede deve coinvolgere tutte le dimensioni dell'essere, dalla vita privata a quella pubblica, sdivinizzando un mondo che ha avuto la presunzione di non riconoscere più Dio come unico creatore.
Ed eccoci di nuovo insieme, a difendere la legge 194 sull'aborto.
[...continua a leggere su Unità di Crisi]
January 17, 2006 in Tempi moderni | Permalink | TrackBack (0)
[tra una pila di appunti sulla Dichiarazione dei diritti (e dei doveri) dei narratori di Wu Ming, prima di un lungo intervento sul dibattito che si può leggere su Lipperatura e su Vibrisse]
I nostri autori ci lasciano qui. Soli. Chi comanda i pensieri istruisce la mano
a dire ciò che non si può dire, a patire sui fogli l’ossessione dei disgraziati:
gli scrittori, la specie simbolica, gli affabulatori a cui non bastò il
padrenostro come criterio di verità. E si ritrovarono soli. Colmo
dell’ingiustizia, non si faranno mai compagnia e, abbandonato il rosario per la
macchina da scrivere, non potranno che contare sulla propria disperazione,
ognuno sulla propria, e scambiare opinioni da eterni e inconsolabili
delusi. Torneranno alla loro ossessione, si spingeranno lontano, ma mai
abbastanza, brilleranno per una parola e precipiteranno nel buio: così pare che
debba accadere. Sia chiaro, nessun malinteso: non vi è destino, non vi è una storia a cui sia
impossibile sottrarsi, un precipizio inevitabile: sono seducenti balle per aspriranti maledetti.
Le storie si scrivono o si vivono, secondo alcune norme
che passano dalla vita alla narrazione e viceversa, ma io non saprei distinguere
troppo chiaramente se si tratti di vita o di racconto. Non ne farò un dramma, mi
basta l’avventura, e riguardo la sua classe ontologica basta attendere la
morte dei filosofi che investono un’esistenza su questioni immortali e
lacrimevoli: visti quanti ne ha fatti piangere l’essere, e piangere
invano. La religione durerà ancora, il clero non spicca certo per onestà ma per
spirito di conservazione. Dietro questo disfattismo mimato si nasconde il più
ingenuo buon umore, giacché la massima aspirazione di pastori e reverendi è di
ricalcare le orme di Gesù Cristo senza mai concedersi alla croce. Come epigoni
sono dei dilettanti, e questa è l’immagine della loro incazzosa divinità: un
dilettante della giustizia, un aborto morale senza responsabili bene
individuati. Un vaffanculo che non si incarna mai.
I nostri cari autori, i nostri amati scrittori, hanno abolito
le virtù astratte per lasciarci a mani vuote: l’auspicata perfezione è
degenerata nel vizio, avrebbe sostenuto un Torquemada in vena di delucidazioni.
Si dirà che c’è qualche eccezione: certo, è vero, c’è persino chi, come Boezio,
cerca ancora la prova dell’esistenza di dio, e, fatto inaudito, la trova:
spesso, nelle piccole cose; ancora più spesso nelle cose inesistenti.
Ma (avversativo di un'impostura) la solitudine dello scrittore è, ancora una volta, un fatto sociale: altrimenti è il vanto di un'ipocrisia.
January 14, 2006 in Tempi moderni | Permalink | TrackBack (0)
Quando mi accorsi della mia bambinesca vanità mi impegnai per essere salottiero, perché non c'è centimetro di mondo in cui un adulto piuttosto puerile non sia circondato da infiniti Peter Pan da cui attendersi indulgenza, compassione e stupida complicità. Ero doppio: ero a mia volta un Peter Pan affettato che di giorno si concedeva ai passatempi di società, e un letterato in posa che di notte si concentrava sulla biancheria intima. Nello stile impuro e sartriano che amo, si potrebbe credere che avessi spinto l'irresponsabilità fino alla sua perfezione. In realtà -almeno fino ad un certo punto- non ho avuto alcuna seria occasione per mettere alla prova la mia cara libertà, i doveri dell'angoscia, lo stile di vita, i patimenti notturni: mescolavo tutto e ne facevo un sentimento unico, che veniva fuori come poteva, cioè in modo incomprensibile. Qui finisce l'autoanalisi, il pane degli animi addolorati e ricchi. Sono sopravvissuto senza bisogno di dover dire che ho scelto questo e quello, che ho scelto tutto, consapevole in ogni istante, tutto coscienza e dirittura morale. Anzi, sono quasi sempre amorale, perché non posso permettermi di brandire l'etica per tutti i casi a cui si applica il pensiero di un uomo vivo; per la maggior parte di quei casi un'etichetta è più che sufficiente: buono, cattivo, bello, brutto non sono semplicemente giudizi di valore ma sono anche le stimmate di un gusto che rivendica il diritto di non perdere tempo a cercare valori dove non ce ne sono. Sto solo facendo qualche affermazione sulla serietà intellettuale, consapevole di non aver bisogno di immergermi in un lago di sterco per capire di non essere anfibio. Non ho un'eternità davanti ed una alle spalle e già solo un decente stile di vita, con un paio di scelte fondamentali, richiede il sacrificio delle famose domande di troppo sulle questioni irrilevanti (con la possibilità che alcune non siano irrilevanti, certo). Poi, serietà a parte, si tratta di una questione personale e non di un calcolo su come impiegare il tempo di una vita-modello. A furia di ripetere questi bei mottetti sull'esistenza qualcuno li prenderà per catechismo e, dopo averli deturpati, ne farà ciò che preferisce (probabilmente ne farà l'esatto contrario): ma in quel caso avrà tutta la responsabilità. Meglio che non mi preoccupi: ricordo di avere letto di troppi filosofi e letterati che, dopo aver speso una vita a concionare nella pubblica piazza della virtù, sono finiti vittime di un Bignami.
January 13, 2006 in Quasi un diario | Permalink | Comments (4) | TrackBack (0)
C’è una superstizione che va raschiata dalle menti più pervicaci, e più meticolose nella cantonata, visto che abolirla per decreto non si può: il fatto di poter formulare una domanda in maniera grammaticalmente corretta, e anche argomentata, non è sufficiente a fare della domanda stessa una domanda sensata. Colossali sciocchezze, con la dovuta accortezza, possono essere offerte al pubblico in forma rigorosa e articolata, dopo adeguata ruminazione.
A prescindere da questa osservazione di carattere generale, riconosco a Giulio Mozzi un singolare talento nell’intricar matasse di genere pseudoletterario, che va ben oltre la sua abilità nello scansare le domande. Ma su Mozzi tornerò al termine dell’ultima puntata de “la cosa”, su Lipperatura. Nel frattempo, mi limito a dichiarare le premesse di un discorso, che incidentalmente contengono un accenno di replica a Mozzi.
Ecco le premesse, per ora, del discorso che seguirà.
1) Esistono gli studiosi di letteratura, e posso garantire che esistono anche gli studiosi di letteratura contemporanea: la specie non è affatto in via di estinzione.
2) Gli studiosi di letteratura sono critici letterari tanto quanto gli studiosi di filosofia sono critici filosofici e gli studiosi di gastronomia sono critici gastronomici: sono critici quando agiscono da critici. Non era poi così complicato.
3) Chi tratta il critico come una guida spirituale e si
attende di essere orientato, indirizzato, guidato sulla retta via, baratta il
critico con una bussola e ne fa un patetico arnese al servizio del mondo
letterario, almeno in teoria: in pratica, la bussola ha un ago che punta sempre
nella stessa direzione, e la metamorfosi in bussola fa sì che la fede del
postulante sia ricambiata con una lista della spesa, il più delle volte. Chi ha
bisogno dell’incarnazione di questa idiozia può ben dichiarare che la critica
letteraria sia morta, non una volta ma cento: e mi impegno personalmente a
pagare i funerali passati e presenti.
E’ chiaro che esiste il critico
letterario che si dedica volentieri alla distribuzione di pessimi consigli, spesso con la sicumèra
di colui che sa, l’immodestia dell’educatore
di masse ostile alla disgregazione del gusto, ed è anche vero che può accadere che
trascenda in una forma di egolalia compulsiva, proponendo sempre gli stessi, disgraziati,
autori: le sue prime vittime, in attesa dei lettori. Fa tutto ciò con l’identico
paternalismo di chi consigli un’iniezione per i casi più gravi, un
provvedimento necessario in uno stato di
emergenza, e lo fa per la propria gloria, ossia il riflesso del lanternino di chi, solo, ha visto subito ed ha visto bene.
4) Perciò: la questione della morte della critica, in questo momento storico, mi sembra intimamente legata alla proclamazione di un presunto stato di emergenza.
[continua]
January 12, 2006 in Tempi moderni | Permalink | TrackBack (0)
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