Qui ci sarebbe una pausa, in condizioni ordinarie: ma siamo in stato d’emergenza. Non ci si deve fermare, si deve dormire vestiti, non si deve badare alle stoffe, e alle salde radici di una tradizione che ci vuole addormentati e nudi. In certi casi in pigiama, o in talamiche vesti, interpretando il letto come un palco. Bisogna stare sempre all’erta, si dà il caso che la libertà possa arrivare col buio. Liberi domani, o prima possibile. Rinviare è da stolti, anticipare è vano. Correre non serve. Si tratta, senza orpelli, di fare ciò che si vuole. Ma davvero si vuole, oppure ci si gingilla con i dolci pruriti? Sulle carte delle costituzioni, in ogni trattato, persino nelle parole d’amore che precedono gli anelli della schiavitù, la libertà è sempre inclusa nei patti: ma le carte si strappano e gli anelli, come simboli, si consumano nel momento in cui si indossano come coccarde. Con le nozze gli amanti si dicono formalmente addio, e ne danno prova con uno scambio di insegne, frigide quanto il reciproco congedo: che inizia camuffato da festa, e tra ostentati bagordi. Si deve vedere bene ciò che neppure esiste: non dico l’amore, perché non direi mai una corbelleria del genere, ma l’unione. Il matrimonio è appena un caso, uno fra i tanti, in cui la libertà viene trasformata in macchietta. Per quanto la felicità sia difficile da definire, l’infelicità non si nega a nessuno e già sul piano semantico non dà luogo a troppe dispute. Al limite, ci si deve intendere sui dettagli della propria: variazioni su tema. Qualcuno vorrebbe che le pause fossero infinite, ma non è possibile. Nelle pause si può impigrire, ci si può ingozzare di menzogne. D’altra parte, non è operazione di ordinaria amministrazione promettere a se stessi una libertà che non arriverà mai, professarsi intrepidi tra sé e sé, e vegetare in un crepuscolo di graduale e placido rincoglionimento, fino alla fine dei propri giorni? Pausa.
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